Il forte valore simbolico del pane nella tradizione cristiana si manifesta anche nella pratica della carità. Sant’Agostino paragona la panificazione con la formazione del cristiano: «Questo pane racconta la vostra storia.
È spuntato come grano nei campi. la terra l’ha fatto nascere, la pioggia l’ha nutrito e l’ha fatto maturare in spiga. Il lavoro dell’uomo l’ha portato sull’aia, l’ha battuto, ventilato, riposto nel granaio e portato al mulino. l’ha macinato, impastato e cotto in forno. ricordatevi che questa è anche la vostra storia.
“PERCHE’ TORNARE A PARLARE DI GUERRE, DI CARESTIE E DI PANE”
“La società italiana odierna appare come una società alla deriva: non più agricola, ma neanche industriale; sorpresa dagli eventi, incapace di dominare il disegno del proprio destino, barcollante sotto il peso d’una radicale crisi d’identità.”
Gli anni in cui il nostro Paese sembrava mancare la sua occasione storica di diventare un Paese moderno affrancandosi dai suoi mali endemici: un’inadeguatezza delle istituzioni rispetto alle nuove realtà sociali, un capitalismo in ritardo ed eternamente dipendente, la faticosa conquista da parte dello Stato di un’identità pienamente laica, una classe intellettuale incapace di esprimere voci partecipi ma critiche, scomode e non a servizio della globalizzazione e delle guerre di predominio
Il resto lo hanno fatto i fenomeni atmosferici e l’accelerazione che ha portato a riconsiderare tutta la filiera di produzione e di distribuzione della catena alimentare.
Questo nostro contributo vuole essere un lavoro organico che affronta tutti i problemi sorti dalle variabili appena descritte e fornisce una guida a chi crede fermamente che l’agricoltura e lo sfruttamento intelligente sia la fonte primaria a cui attingere per ricominciare a capitalizzare per creare una società vivibile e sostenibile anche nel rispetto della storia più antica che caratterizza le nostre radici cristiane.
«Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis» (Cicerone, De Oratore, II, 9, 36),
"La storia in verità è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita, messaggera dell'antichità."
La carestia, che cominciò a costituire per i poveri più che un timore lontano una paura quotidiana e una realtà frequente, finì per identificarsi con la carenza di prodotti panificabili; la mancanza di cereali e di legumi portava a sostituirli con materie diverse, spesso non commestibili.
Ciò accadde nella carestia descritta da Rodolfo il Glabro, in area francese (1032-1033), che dimostra sino a che punto poteva arrivare la necessità di utilizzare prodotti ‘alternativi’ rispetto a quelli abitualmente panificati.
«nella stessa zona fu tentato un esperimento che non ci risulta sia mai stato fatto altrove. Molti estraevano una sabbia bianca, simile ad argilla, e, mischiandola alla quantità allora disponibile di farina e crusca, ne ricavavano delle pagnotte per cercare anche così di scampare alla fame», racconta Rodolfo.
D’altro canto, nella tradizione letteraria, dalle descrizioni di Procopio e di Gregorio di Tours, emergeva la necessità di sostituire la normale alimentazione con erbe selvatiche. Ciò che preme sottolineare delle testimonianze di Rodolfo è l’insistenza sulla produzione di pane. “pane di carestia”, come lo ha definito Montanari, perché non si fa ricorso solo ai cereali inferiori, ai legumi e alle castagne, ma alle ghiande, alle erbe selvatiche e alle radici o, addirittura, alla terra: in omaggio all’abitudine alimentare di panificare, tutti questi prodotti venivano cotti in forma di pagnotta.
Trasformare comunque sostanze più o meno commestibili e più o meno piacevoli al palato in pani ha un significato profondo, ossia quello di conservare, pur in condizioni drammatiche, un comportamento umano (rappresentato dalla capacità di elaborare il cibo) e non cadere in abitudini animalesche (come accade quando la carestia porta a cibarsi direttamente di erba dai prati o a praticare l’antropofagia).
I periodi di carestia, sin dall’inizio del nuovo millennio, mettono in evidenza i profondi limiti di una società che vive ai limiti della sussistenza. Il clima condiziona fortemente la produzione agricola; un’annata di raccolti scarsi è sufficiente a portare con sé la penuria di prodotti, il loro rincaro e, in situazioni più drammatiche, la loro totale sparizione dal mercato. Inutile sottolineare come siano i ceti più deboli a soffrire in maniera drammatica delle situazioni più dure. e senza un aiuto, dalla sofferenza e dalla privazione, si poteva passare alla morte, sia per la mancanza di sostentamento sia per essersi cibati di prodotti non adatti all’alimentazione umana (con conseguenti malattie ed epidemie).
Ci si chiede, quindi, quali erano le modalità attraverso le quali la società di questi secoli cercava di prestare aiuto ai poveri, in particolare come e quando si faceva ricorso alla distribuzione caritatevole e gratuita di pane ai poveri. nel racconto della Historia Mediolanensis, attribuita a Landolfo Seniore, il cronista ricorda come, durante una terribile carestia che interessò l’Italia settentrionale nei primi decenni dell’XI secolo (gli stessi anni illustrati da Rodolfo il Glabro), l’arcivescovo di Milano, Ariberto di Intimiano, sia intervenuto in aiuto dei poveri.
In continuità con la tradizione alto medievale, Ariberto, infatti, decise di provvedere ad aiutare coloro che erano in difficoltà: poveri e indigenti, vedove e orfani. lo fece tramite una distribuzione di pane, che si sarebbe protratta per anni18. egli fece, infatti, un accordo con alcuni fornai (magistri artis pistoriae), che assicurarono, giorno e notte, la confezione di pani, 8000 ogni giorno, destinati ai poveri, fornendo egli stesso la materia da panificare, in particolare legumi (ceci e fave).
Non siamo di fronte ad una semplice distribuzione di pane da parte di colui che ricopriva la carica di vescovo (che aveva tra i suoi compiti primari quello di assistere i deboli, come “padre dei poveri”), ma anche di un’azione, intrapresa in sostituzione di ufficiali pubblici, come dimostra il fatto che Ariberto dà i propri ordini ai panificatori, ossia a coloro che esercitavano un mestiere considerato di pubblica utilità e controllato da poteri pubblici. Inoltre, l’operazione messa in atto da Ariberto, per dimensioni (migliaia di pani al giorno) va ben al di là di un atto simbolico (al quale spesso si riducevano analoghi atti di carità dei vescovi) e ricorda da un lato le distribuzioni dell’annona di tradizione romana, dall’altro anticipa pratiche che saranno messe in atto successivamente dai comuni cittadini. Anche il tipo di pane distribuito, di mistura, di cereali e legumi, fa pensare più alla precisa volontà di dare un aiuto concreto e tangibile che all’ostentazione di un aiuto simbolico, che avrebbe privilegiato (come spesso avveniva), la distribuzione di pane di frumento (pane bianco, consumato dai ceti alti), più costoso e quindi necessariamente in quantità assai minore.